giovedì 3 marzo 2011

Un buco nell’acqua per iniziare

In Congo, dopo anni di guerra, si cerca l’acqua e si provano strategie inedite di sviluppo: cooperative, filiera corta, autorganizzazione. Merito di un’alleanza tra cooperazione internazionale e missionari

MAMBASA è su un altopiano senza montagne; lo chiamano villaggio, sebbene conti una popolazione di 40 mila abitanti circa, tra centro e periferie. Siamo nell’area amministrativa di Ituri nella Repubblica Democratica del Congo, in piena foresta, tra Uganda, Ruanda, Burundi e la regione dei grandi laghi africani. Adusa, la città più vicina, dista due giorni di jeep e il contesto è di estrema povertà, legato a un’agricoltura di sussistenza (riso, manioca e poco più) e all’unica strada importante che passa proprio lì accanto. Un sistema sociale ed economico bloccato, anche per la difficoltà di reperire acqua potabile. Eppure qualcosa è cambiato positivamente nell’ultimo quinquennio, a partire proprio dalla ricerca di soluzioni per le carenze idriche.


I guardiani dei pozzi

«Arrivai a Mambasa nel 1989, quando ancora non c’era piena consapevolezza del problema dell’accesso all’acqua. Abbiamo cominciato ad affrontarlo con la pesante siccità del 1992-93, scavando il fondovalle. Ma è acqua inquinata e va fatta decantare, bollire e sterilizzare. E purtroppo non siamo ancora riusciti a far penetrare nella cultura locale l’abitudine di bollire l’acqua ». Così racconta Silvano Ruaro, padre dehoniano italiano, responsabile della missione di Mambasa, nonché preside dell’annesso complesso scolastico in cui circa 600 ragazzi frequentano la scuola media, la scuola professionale di taglio e cucito, di falegnameria e di meccanica-auto, un istituto tecnico di meccanica generale, un liceo scientifico e uno magistrale. Per risolvere le difficoltà di approvvigionamento idrico del “suo” centro educativo e religioso padre Ruaro, dopo una serie di tentativi poco efficaci, si è rivolto a Ingegneria senza frontiere (Isf-Mi), organismo non profit legato al Politecnico di Milano e in attesa di essere riconosciuto come Ong. Un intervento, quello di Isf-Mi, che, a partire da un’accurata analisi delle acque e dei terreni, si svolge dal 2005 all’insegna di buone prassi e di un alto tasso di coinvolgimento della gente del posto. «Per la realizzazione dei pozzi e degli impianti abbiamo puntato innanzitutto su “tecnologie a filiera corta”, cioè che riducessero la necessità di riparazioni e di approvvigionamento dei pezzi di ricambio attraverso processi di escavazione attuati con ferro di recupero e legno; inoltre abbiamo voluto sfruttare il più possibile le competenze del luogo, ovvero i docenti della scuola di meccanica e dell’istituto tecnico. Così abbiamo allestito 9 pozzi per circa 15 mila abitanti e costituito un Comitato di gestione e manutenzione (anche per poter ridurre le nostre visite periodiche sul posto), formando dei tecnici e organizzando ogni comitato con 8-9 persone ciascuno (un presidente, un tesoriere, un guardiano del pozzo)». Il comitato costituisce infatti un raccordo tra la popolazione e la sostenibilità economica del pozzo, e risulta un organo di democrazia locale efficace, capace di produrre formazione nella gestione amministrativa e partecipazione dal basso: basti pensare che la decisione di far pagare l’acqua (circa 2 centesimi di euro per barile da 20 litri) è stata frutto di una discussione comune, sviluppata dalla necessità che il sistema dei pozzi avesse risorse proprie e condotta da persone con un reddito medio di 10-15 euro/ mese. Risultato: in 6 mesi i pozzi hanno raccolto tremila dollari, utili ad implementare il progetto, programmare riparazioni, concepire l’idea di un comitato dei comitati per attuare sinergie ed economie di scala. Un bel salto di qualità, raggiunto grazie all’autorganizzazione e a un rinnovato – da poco – rapporto con le autorità locali e nonostante le recenti politiche per l’acqua imposte in modo indifferenziato dalle Nazioni Unite e perciò fallimentari.


Cooperazione familiare

Senza frontiere sono gli ingegneri, ma anche i veterinari. E all’attività di Isf-Mi si è aggiunta ora a Mambasa anche l’opera di Veterinari senza frontiere (SiVtro-Vsf Italia onlus) e, in particolare, di un progetto guidato dalla dottoressa Annagabriella Di Pasquale, sorella di Gianluca, studiato per dotare la popolazione – soprattutto femminile – di strumenti di sviluppo e risorse attraverso una migliore organizzazione del piccolo allevamento. «La cosa più difficile è stata insegnare alle donne a lavorare insieme, e i concetti di cooperativa e lavoro comunitario, in un contesto segnato invece da un forte individualismo e radicate invidie personali. Il secondo ostacolo è stato l’analfabetismo femminile diffuso», dice Annagabriella. Tuttavia i risultati oltrepassano forse gli obiettivi originari. Dopo due anni di analisi sullo status dell’allevamento locale e delle esigenze degli abitanti e altri due di intensa formazione sul posto, sono nate infatti le prime tre esperienze pilota di cooperative femminili per l’allevamento delle galline. Da tre che erano, le cooperative di donne sono però già diventate cinque tramite l’autocoinvolgimento e la formazione reciproca: due producono uova per la schiusa e vendono pulcini; due producono e vendono uova; la quinta alleva polli da ingrasso; tutte, in comune, dispongono di un’incubatrice e un piccolo laboratorio veterinario, e fanno formazione specifica in campo avicolo agli studenti usciti dalle parauniversità locali: per Mambasa non è quindi più necessario comprare dall’Uganda i pulcini, destinati oltretutto a morire in gran numero in assenza dei richiami delle vaccinazioni. L’ultimo passo da compiere, ricorda Annagabriella, è ora rendere le cooperative «completamente autosufficienti dal punto di vista economico: sebbene, infatti, il 50% della vendita di polli e uova vada a ogni singola cooperativa e il restante 50% venga messo in una cassa comune (rack) e usato per acquistare mangimi (mais, soia, farine...), la rack è talvolta integrata ancora dai contributi di SiVtro Italia». Sostenibilità finanziaria a parte, il successo del programma è però testimoniato sia dal diradarsi delle visite dei veterinari italiani in loco che dall’interesse per il modello cooperativo di Mambasa mostrato da famiglie giunte da altri villaggi. E poi, conclude la dottoressa Di Pasquale: «Ho chiesto alle donne se e come hanno sentito l’impatto del progetto sulle famiglie: ora dicono di avere più risorse per la cura dei figli e la scuola, con una migliore alimentazione e una piccola entrata extra, utile magari per viaggi fuori dal villaggio. Cose importanti!».

Corrado Fontana

riproduzione autorizzata dall'Autore; articolo tratto da Valori

2 commenti:

Gianluigi ha detto...

Commento indirizzato ad Ilaria che mi ha inoltrato l'articolo per la pubblicazione.
Come si spiega che nessuno abbia lasciato "l'impronta" del suo passaggio qui, se mai ci sia passato?
Tu hai segnalato a qualcuno del tuo giro? All'Autore, ai soggetti citati.
E...poi chiamatemi Ezechiele!

Ilaria ha detto...

eccomi Gianluigi! ringrazio anche qui il giornalista Corrado Fontana, che ho conosciuto per motivi di lavoro e che si è interessato alla storia di Mambasa! E' molto emozionante per me vedere che da una battuta viene scritta una storia che leggeranno tantissime persone...